Quegli equivoci sull’articolo 18
Dal blog di Bruno Tinti
1. – Telese e Travaglio hanno assolutamente ragione quando ricordano gli “esodati” e il loro drammatico destino. C’è poco da dire, pacta sunt servanda. Non puoi buttare in mezzo alla strada gente che aveva fatto progetti (me ne vado in pensione) sulla base di un assetto normativo studiato apposta per indurli a fare quei progetti; e poi dirgli che hai cambiato idea. Privare dei mezzi per vivere un milione di persone è peggio di un crimine; è un errore (Talleyrand). Che va corretto. Ci vuole poco: bisogna accompagnarli con l’Aspi (che è poco ma è meglio di niente) fino alla pensione.
2. – La riforma Fornero si applica senza dubbio ai lavoratori del pubblico impiego. Lo dice l’art. 51 del d. lgs. n. 165 / 2001: “I rapporti di lavoro dei dipendenti delle amministrazioni pubbliche sono disciplinati dal codice civile e dalle leggi sui rapporti di lavoro subordinato nell’impresa”. Tra queste c’è sicuramente lo Statuto dei lavoratori; e dunque l’art. 18. Personalmente la trovo una cosa sacrosanta. Il governo ha detto che non vuole che ciò avvenga. In questo caso sarà bene che scriva una norma apposita. Ma sarebbe una norma sbagliata: non c’è ragione che il pubblico impiego sia tutelato in misura maggiore dell’impiego privato. E siccome molti dicono che, dopo la riforma Brunetta, in realtà la tutela del pubblico impiego è minore di quella assicurata dallo Statuto dei lavoratori nella versione Fornero, preciso che anche questo è sbagliato.
3. – Ci sono molti equivoci sul licenziamento per motivi economici utilizzato per nascondere un licenziamento discriminatorio o disciplinare. Bisogna capire che il sistema complessivo consente sempre al lavoratore di ricorrere al giudice sostenendo che la motivazione del suo licenziamento (economica) è falsa e che, in realtà, egli è stato licenziato per uno degli altri due motivi; e questo anche se l’art. 18 non lo dice espressamente. Se si accertasse che in effetti così è, la sentenza sarebbe questa: “Il licenziamento è avvenuto per motivi discriminatori (o disciplinari). Ne consegue che il licenziamento per motivi economici non sussiste. Si deve quindi applicare la normativa riguardante i licenziamenti discriminatori (o disciplinari). Ordino il reintegro (per il licenziamento discriminatorio); oppure l’indennizzo (per il licenziamento disciplinare fondato); ovvero ancora il reintegro (se fosse infondato)”.
Quindi le critiche del tipo “qualora il giudice riscontrasse non sussistere la validità della ragione economica, comunque il reintegro non è più previsto come prima, ma solo l’indennizzo. Il trucchetto è chiaro” (da un commento alla mia rubrica di venerdì scorso) sono sbagliate. Nel licenziamento economico vero c’è sempre l’indennizzo; se invece è solo un pretesto ci può essere il reintegro. Altre critiche sono più fondate. La prova che non si tratta di licenziamento economico tocca al lavoratore; ed è vero che dare questa prova può essere molto difficile. Ma questo vale per ogni processo civile: chi sostiene una tesi ha l’onere di provarla, non c’è un’altra strada. Alla fine un altro commento mi ha lasciato senza parole: “Questi predicano in tedesco e razzolano in Italiano”. Se fosse vero, se Monti, Fornero e tutti gli altri fossero davvero dei nuovi B & C, saremmo proprio nei guai.
Il Fatto Quotidiano, 30 Marzo 2012