Federica Suardi su Expo 2015 e nutrimento di cura

11.12.2015 09:11

Il lavoro di cura è nutrimento per la vita.

Riflessioni sul lavoro di cura in occasione dell’Esposizione Internazionale di Milano

Avv. Federica Suardi

Componente Segreteria Nazionale Acli Colf

C’è un aspetto che Expo 2015 dovrebbe poter mettere in luce ed evidenziare con forza: “Il gusto è conoscenza”, il semplice atto del mangiare ci pone in relazione con l’altro, con chi prepara i cibi, chi li assaggia e li condivide, unendo, in un semplice atto quotidiano, chi ci è vicino da sempre, con chi proviene da Paesi anche molto lontani.

Indubbiamente la “relazione della cura” che si instaura all’interno delle mura domestiche contribuisce molto a questo concetto: nelle nostre case si assiste ad un continuo confronto tra donne e uomini che sono chiamati a svolgere compiti di cura e assistenza, soprattutto di anziani soli e non autosufficienti, in un rapporto quotidiano e continuo, in cui il cibo, la sua preparazione e condivisione rappresenta un elemento essenziale di confronto, a volte anche aspro e difficile, soprattutto quando il rapporto, che è e rimane lavorativo, si sviluppa in coresidenza.

Questa è una delle contraddizioni più pesanti che si affronta nell’ambito del lavoro di cura: l’assistente familiare svolge un’attività che va oltre e al di là del mero prestazionismo, e che domanda una prossimità esigente, volta a ottenere un vero e proprio sostegno alla “fragilità”, specie nelle persone anziane.

In quest’ambito le normali pratiche di interazione tra residenti e non residenti, vengono sovvertite: di solito infatti lo scambio culturale avviene in ambiti marginali che non pongono in discussione le identità di appartenenza (la partecipazione alla festa esotica, il contatto occasionale ..). Nell’ambito della cura la contiguità si introduce nello spazio domestico, nelle pratiche e abitudini quotidiane.

La cucina rappresenta dunque l’ambito in cui si mettono in gioco le identità, la cultura degli individui, una dimensione fondamentale di un incontro problematico e complesso.

Il lavoro di cura  riveste ormai un’importanza strategica nella vita quotidiana delle famiglie ed è quanto mai necessario che esso sia inserito in una visione promozionale e innovativa di welfare che metta al centro la persona, attraverso la cooperazione sussidiaria tra servizi del privato sociale e istituzioni pubbliche, seguendo un principio di fondamentale corresponsabilità pubblica.

E’ venuto il momento di chiedersi se l’attuazione del diritto alla salute, così come proclamato dall’art. 32 della Costituzione, possa passare per l’attuazione di uno strumento così rigido e privatistico come il CCNL, rimanendo così “affare privato” delle famiglie.

Le politiche di welfare della cura, si limitano ad assicurare prestazioni predeterminate e standardizzate attinenti più strettamente alla vita biologica delle persone assistite, condizionate fortemente dal budget del momento e comunque delimitate a spazi temporali ben definiti: interventi infermieristici e socio assistenziali, accesso a centri diurni, ricoveri temporanei di sollievo.

E’ qui che si fonda il successo delle assistenti familiari: esse pongono in essere una cura complessiva rivolta non solo alla persona assistita, ma a tutto il contesto familiare, alla sua casa, all’intero ambiente familiare.

E’ così che lo scenario della cura si è andato configurando secondo un fai da te inizialmente totalmente ignorato dalle Istituzioni e subito dopo inseguito di corsa e con affanno dalle politiche territoriali.

Oggi, secondo stime recenti, le famiglie italiane sostengono una spesa pari a 9 miliardi 352 milioni di euro per retribuire il lavoro delle assistenti familiari, che corrisponde al 10% della spesa sanitaria corrente sostenuta dalle Regioni, e che si avvicina a quanto spende lo Stato per l’indennità di accompagnamento (quasi dieci miliardi di euro).

Il rapporto diretto ed esclusivo tra famiglie e lavoratori/lavoratrici si presenta foriero di rischi sia per il trattamento e le condizioni di lavoro delle persone assunte, sia per la qualità dei servizi erogati.

Per le lavoratrici la familiarizzazione del rapporto di lavoro implica adeguarsi a ritmi di lavoro non scanditi da orari, prolungati nel tempo del giorno e della notte, in una estenuante disponibilità, non sopportabile per lunghi periodi, se non con adeguate turnazioni. Esistono poi le difficoltà legate al “vivere insieme” tra cui la reciproca difficoltà nella lingua, il sentirsi entrambi estranei, le abitudini diverse.

Da qui la crescita esponenziale di vertenze tra le c.d. “badanti” e le famiglie, che daun lato espongono continuamente la famiglia, spesso aggravando le fragilità che la compongono, e dall’altro non aiutano lo sviluppo di una professionalità nel settore, appetibile ed adeguata al bisogno.

È questa la prima e più importante mission: perseguire una etica della cura, lavorando per iniziative, percorsi che coinvolgano le famiglie, le lavoratrici e le Istituzioni nel loro complesso: al di là di semplici supporti economici (voucher, buoni servizio etc..) è necessario costruire con i servizi locali una serie di sostegni risorsa.

E’ possibile pensare un sistema alternativo che utilizzi tutte le risorse investite nel settore per creare un welfare della cura sostenibile per tutti?

La promozione del lavoro di cura, intesa come tutela di due soggetti deboli e fragili, ovvero la famiglia e la lavoratrice, va infatti collocata nell’area delle politiche del welfare e della famiglia. Se la domiciliarità è un obiettivo delle politiche sociali e sanitarie, sarebbe ovvio che, anche quando è gestita attraverso scelte private delle famiglie sia messa in relazione con tutte le altre risorse e opportunità e diventi un punto nella rete del welfare locale. Solo promuovendo una assunzione di responsabilità da parte delle istituzioni nella gestione del fenomeno e compartecipazione alla spesa è possibile trasformare il lavoro di cura da lavoro subalterno e sommerso in vera e propria professione appetibile sia dal punto di vista contrattuale, sia per ciò che riguarda la sua considerazione sociale, superando quella sorta di “abusivismo di necessità” che si è ormai affermato con forza nella nostra società.

Accudire e curare la vita significa innanzitutto aiutare chi è fragile e non è autonomo; significa dare corpo al legame di solidarietà e mutualità che deve unire le generazioni, le famiglie e le persone nella consapevolezza che, se manca questo legame, non può esserci una società comunitaria né benessere sociale.

E’ quindi quanto mai necessario affiancare, sostenere ed accompagnare i curanti: tanto più ci si prende cura di chi cura, tanto più si può curare bene; tanto meno ci si occupa di chi cura, tanto più anche la persona da assistere è a rischio, perché il curante ha bisogno a sua volta di assistenza.  

La cura, nel suo complesso, deve essere riconosciuta come bene sociale, da condividere e sostenere in quanto essere curati bene e curare bene è un diritto di cittadinanza e trasfigura un tempo della vita restituendolo come tempo di vita.

Workshop "Lavoro di cura Nutrimento per la vita"

Expo 2015 - Milano Cascina Triulza

Acli Colf, Caritas Internationalis, Madre Terra

16 giugno 2015

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