Addio Pietro,campione vero

28.03.2013 09:08

Noi ragazzini innamorati della corsa lo consideravamo come un punto di riferimento, talvolta un fratello maggiore. Avevamo all'incirca una decina d'anni di meno, ma ogni volta che lui metteva quel volto e quegli occhi sporgenti oltre la linea del traguardo le nostre distanze si accorciavano, inesorabilmente. Era il rendiconto della sua fatica discreta che ci impressionava. La puntualità con cui valorizzava le sue privazioni volontarie, ma creative. Ci affascinava, perchè no, quella scelta di ripetere all'infinito anche gesti e scatti elementari per raggiungere il massimo obiettivo. L'obiettivo di resistere alla velocità il più a lungo possibile per allinearsi alle fibre staminiche dei concorrenti d'oltreoceano. E magari spuntarla, declinando in modo assolutamente originale il senso di quella tensione agonistica e nervosa. Essere aerobici, magari anche nella testa, nello sforzo assolutamente anaerobico dei 200 metri, soprattutto dopo quella grande curva che poteva spalancarti la gloria (come accadde a Praga, a Mosca, nella volata "totale" di Città del Messico) o lasciarti misteriosamente in folle (come accadde a Montreal, dove lui non avrebbe voluto assolutamente andare). Era un punto di riferimento per tutti noi ragazzini innamorati della corsa, anche quelli che per fragilità congenita scelsero di dedicarsi al mezzo fondo. Perchè poi in sostanza quello che ci rapì era il suo essere atipico e normale con quel corpo un po' ingobbito, la dimostrazione fisica e mentale che anche l'applicazione, quando non è sostenuta dallo scivolo del doping e degli anabolizzanti, può fare sinceramente la differenza. La sua resistenza nervosa cessò agli inizi degli anni '80 quando anche l'atletica imboccò la strada del business e dei concorsi a premio. Disse di no e un bel giorno si ritirò perchè cominciò a sentirsi stritolato da un gioco più grande lui. Non tanto per l'ansia prestativa del guadagno, quanto perchè, visti i numerosi aerei da prendere, non avrebbe potuto dedicarsi con sufficiente applicazione alle sue ripetute d'allenamento nello spazio aperto e solitario di Formia. Quando tornò, fino all'88, lo fece più che altro per sfidare il mondo che non l'aveva compreso fino in fondo e le statue d'ebano che avevano cominciato ad egemonizzare le distanze brevi della pista, talvolta con strane metodologie. Ma questa era già un'altra storia. E noi, ovviamente, non eravamo più ragazzini. Lo incontrammo tre anni fa (se non ricordiamo male) in occasione della tappa livornese di ItaliaWave. Parole spontanee, la sua esperienza di sportivo allo stato puro al servizio dei più giovani, attraverso i molti libri scritti (fino all'ultimo, con Daniele Menarini, di grande interesse) e quel colloquio pacato e articolato dal quale spuntavano ogni tanto gli stessi occhi sporgenti e stupiti che avevamo "fotografato"  tante volte dopo la linea del traguardo. Un uomo difficile e curioso, che non avremmo mai immaginato potesse morire. Proprio come un fratello maggiore.

sergio nieri